L'ERASMUS IN PORTOGALLO CHE CAMBIÒ TUTTO

Penso arrivi per tutti, prima o poi nella vita, il momento di svolta

Quel piccolo momento (e a volte più di uno) che ti riscuote dal torpore con uno schiaffo in faccia e ti fa rinsavire. Ti fa accorgere di qualcosa che avevi davanti agli occhi – che in realtà era sempre stato dentro di te e che ignoravi, perché era meglio lasciar perdere – e tutto d’un tratto è come se riprendessi a ragionare lucidamente. 

Non te ne accorgi nemmeno, e in 0,01 secondo, dopo che quel momento si è materializzato dal nulla, ti ritrovi una combo di sentimenti quali stupore, entusiasmo, angoscia, determinazione da gestire.

Una palla di neve gelida dritta sul muso: questa è la presa di coscienza, di qualsiasi natura essa sia.

Ecco penso di aver ricevuto la prima qualche tempo fa e volevo condividere, poiché magari qualcuno si riconosce.

Fin dalla terza superiore ho avuto la fortuna di partecipare a stage linguistici d’inglese all’estero (grazie genitori) dunque prima andai nella storica Winchester (dove Re Artù ha fondato la tavola rotonda se non erro?) e poi nella gotica Dublino. Quanto era bella Dublino accidenti

Queste esperienze hanno fatto solo da contorno a tutta una serie di pensieri che già mi frullavano da tempo in testa e insomma, hanno avuto il loro peso. Mi avevano fatto capire che mi piaceva conoscere persone locali, sapere i piccoli segreti che quel posto celava, insinuarmi piano piano ed entrare nel meccanismo. Mi piaceva l’idea di girare per le strade senza sapere una beata mazza di dov’ero e dove stavo andando, e soprattutto non avere l’aria della tipica turista che sparaflasha con la macchina fotografica anche la cacca di piccione e si fa selfie davanti a una cabina telefonica. Okay, una foto davanti una cabina telefonica me l’hanno fatta, ma non l’ho richiesta io. Ecco.

Dopo aver collezionato pianti isterici e insofferenza ad ogni ritorno in Italia, cercavo di riprendermi dai duri colpi e continuare la mia vita, archiviando quelle esperienze come le chat di Whatsapp. Ero ancora in quarta superiore, avevo la scuola a cui pensare, le amicizie che mi tenevano occupata con risate fra i banchi di scuola e qualche sabato sera passato in locali anonimi, anche se molte volte preferivo decisamente starmene da qualche altra parte.

Poi, in quinta superiore, piove dal cielo l’opportunità di lavorare un mese all’estero grazie al progetto Erasmus+, che per chi non lo sapesse è una specie di borsa di studio che l’Unione Europea fornisce alle scuole (di tutti gli stati membri) che aderiscono al progetto e selezionano un tot di studenti con un colloquio per verificare se veramente vale la pena di farti partire, dato che sei spesato di tutto.

In parecchi nel corso del tempo mi hanno chiesto i pro che ne ricava l’Unione Europea da questo, se non far venire voglia ai giovani italiani di espatriare dopo aver visto realtà più “fertili”, e beh, a me viene da rispondere a queste persone dalla mente un tantino maliziosa che non è colpa dell’Unione Europea se l’Italia si trova in tutti sti casini e c’è il desiderio di sperimentare altre realtà (questa cosa la dico non perché è una mia opinione, ma perché prima di partire abbiamo dovuto partecipare ad un programma di una decina di giorni di lezioni di civiltà su appunto l’EU). La risposta seria invece è che l’interesse dell’EU è quello di unificare gli stati membri, perché l’idea era di creare una specie di Stati Uniti d’America, ma d’Europa, s’intende: anche noi di fatti abbiamo una bandiera, un motto, delle leggi comuni, un’unica moneta. La differenza è che siamo tutto tranne che uniti. Perché?

Perché siamo un pot pourri di tradizioni, culture, modi di dire, costumi e soprattutto lingue. Nulla come la lingua, lo abbiamo visto nella storia, è capace di unire o allontanare.

Ecco, noi abbiamo adottato una lingua comune, l’inglese (sfortunatamente, aggiungo io, e spiegherò perché in un altro articolo) ma l’EU stabilisce che tutti dovremmo, nessuno escluso, parlarlo ad un livello che ci consenta di trovare un lavoro in qualsiasi stato membro dell’EU, o UE, come preferite, alla pari di come lo troviamo nel nostro Paese natale. 

Quanti possiamo dire di parlarlo bene l’inglese? Ben pochi. Così l’EU, forse terrorizzata di vedere ancora scene di inglese maccheronico durante le assemblee, ha deciso di finanziare questi progetti che consentano a studenti di tutti gli stati membri di visitare altri paesi del continente, in modo da far crollare quelle barriere culturali, e migliorare l’inglese. Ecco, io le barriere culturali le ho proprio smaciullate che muro di Berlino scansati, mentre l’inglese…meh, insomma. Spiego meglio.

Il fatto è che c’era da scegliere fra tre destinazioni: Malta (La Valletta), Spagna (Valencia) e Portogallo (Porto). Grazie al mio cervello super selettivo, razionale e soprattutto logico non mi è stato difficile scegliere, fin da subito avevo le idee chiare. La scelta aveva seguito questo criterio: Malta l’avevo esclusa dal principio, il nome non mi piaceva per nulla anche se manco avevo visto delle foto. Valencia, parlano spagnolo vero? No grazie, studio francese, se torno che  faccio confusione mi sparo. 

Portogallo. Porto. E chi l’aveva mai sentito? Cioè sì, certo, il Portogallo, quello stato che sta vicino alla Spagna, quello. Dovevo essere mancata a quella lezione di geografia. Aggiudicato.

Insomma sono partita senza manco sapere che paesaggio avrei trovato. Ci dissero di portare una giacca a vento, perché era un posto alquanto ventoso e questa era la mia unica idea che mi ero fatta su questo Paese prima di arrivare.

Metà settembre, 30 gradi. Porto? A Porto dovevamo andare? Sbagliato, la città era Santo Tirso. Ah. Vabbè, non fa differenza, tanto non avevo aspettative. Alcuni sì però, che anziché ritrovarsi in una città super turistica si sono ritrovati in un paesino collinare, di quelli che nel pomeriggio vedi quei cespuglietti dei film di far west rotolare per le strade e la schiera di vecchiotti seduti fuori dal campetto di bocce.

Noi 7 eletti per il Portogallo provenivamo da una città di medie dimensioni, con negozi che chiudono baracca e burattini e in cui si contano più supermercati che persone, dove l’unico turismo a cui eravamo sottoposti con nostro grande stupore era una corriera di asiatici che fa sosta ad intermittenza per fotografare le Torri (le nostre Torri Gemelle come le chiamiamo noi) del centro, foto che molto probabilmente immortalano solo l’inizio delle torri perché dopo i primi due metri d’altezza queste scompaiono nella nebbia. Dunque capite, era la nostra occasione di vivere la città, la vera città accidenti, di assaporare il vero turismo e godere del consumismo a dismisura. 

E invece, ci andò bene. La signora Unione Europea aveva deciso di mandarci in un posto dove, lingua a parte, avremmo potuto sentirci a casa. Che dico, nemmeno la lingua sarebbe stato un ostacolo secondo l’EU, anzi, era l’occasione per migliorare il nostro inglese parlandolo 24h su 24, 7 giorni su 7, per un mese intero!

Vi faccio ridere? Per poter dire alla signora che mi ospitava che volevo fare una doccia, la prima sera, ho parlato dialetto veneto. E mi ha capito. Dove lavoravo (una Junta de Freguesias, che non sto a spiegare esattamente cos’è, basti sapere che lavoravo con anziani) comunicavo con Google Traduttore con l’altra stagista portoghese di 16 anni e con gli anziani valeva la santa regola “sorridi e annuisci”. Ovunque andassi, se parlavo inglese, mi guardavano più storto di quando parlavo italiano.

Dopo i primi tre giorni, ci rendemmo conto che qualcosa non quadrava. Ma la verità è solo una: se c’è una cosa che può unificare tutti i paesi dell’Unione Europea è che con l’inglese, siamo tutti sulla stessa barca, chi più chi meno.

Non migliorai il mio inglese, ma imparai un portoghese un po’ zoppicante a forza di cantare canti popolari e, dopo aver cantato l’inno nazionale minimo due volte al giorno per un mese, già mi cresceva un patriottismo portoghese che non sapevo di avere.

Quando poi mi insegnarono a mangiare correttamente la Jesuita (dolce tipico di Santo Tirso, nonché unica vera ed importante attrazione turistica), ormai era fatta, ero ufficialmente una di loro. E mentre sorseggiavamo una Bock al tavolo del nostro locale preferito, che non si addiceva allo stile né di quel paesino tranquillo, né a nessuno di noi, con la barista mezza vampiro che raccoglieva più bicchieri rotti (soprattutto i nostri) che servirne, pensavo: ma gringa a chi, scusa?

 

Il fiume Douro visto da Vila Nova de Gaia, un quartiere di Porto
Il fiume Douro visto da Vila Nova de Gaia, un quartiere di Porto

Il mese volò, la famiglia che mi accudì era ormai la mia famiglia, la loro casa la mia casa, Santo Tirso era la mia Santo Tirso. Porto era bellissima, una città turistica ma che perseverava nel tenere la sua anima ancorata a quelle vie in salita strette, i filobus gialli, le rive del Rio Douro, il ponte da cui si buttavano i ragazzini sotto scommessa dei turisti, gli azulejos, la melanconia della musica degli artisti di strada, l’ospitalità delle persone. Tutto era perfetto. Tutto era stato assimilato dal mio cuore, dai miei sensi. Nella mia città natale ci ero nata, in Italia c’ero nata, ma Porto, il Portogallo, li avevo scelti. E questo cambiava tutto.

Tutto questo procedeva spensierato, come se in realtà fossi sempre stata lì. Quando ci trovammo sul bus con il responsabile che ci portava all’aeroporto, questo ci disse la cosa più vera che abbia sentito in tutta la mia vita: “quando tornerete a casa, soffrirete. Passerete mesi di insofferenza, ma dovete continuare, perché questo non è il traguardo, ma il punto di partenza“.

Io non lo so esattamente come si sentissero gli altri, ma da quando misi piede sul suolo italiano volevo semplicemente scappare. Fare dietrofront e bye bye a tutti. Avevo ancora un anno di scuola da affrontare, gli esami di maturità, rivedere gli stessi volti, le stesse vie, gli stessi edifici grigi, tutto già conosciuto, nulla che sentivo davvero mi appartenesse. Non avevo deciso di essere lì e questa la vedevo come una libertà negata.

La “profezia” del responsabile su quell’autobus si avverò. Soffrii molto e ciò che feriva era che la gente non capiva, ma come poteva? E peggio, non percepivo il minimo supporto. Ero insofferente a tutto, assente, incazzata. Mi avevano dato il ciuccio e me l’avevano tolto subito dopo.

Fu in quella sofferenza che arrivò la palla di neve. SBAM. “Devo muovermi“, penso. E fu così che iniziai ad agire con un progetto chiaro in testa, ora avevo un sogno da realizzare.

Ciò che successe dopo, avvenne tutto velocemente e allo stesso tempo in estrema lentezza.

Assolsi i miei doveri di studente, e l’estate provai a cercare un lavoro e adeguarmi ai ritmi “normali“. Nemmeno dopo il mio primo stipendio riuscii a pensare che era questo ciò volevo davvero (come la maggior parte delle persone che conosco). Nemmeno i soldi mi convinsero a quel mettere “la testa a posto”.

Poi ci fu la visita di un caro amico dalla Spagna ed il pensiero di partire per un viaggio a modo mio prende forma. Poi c’è il ritorno in Portogallo per una settimana con un amico dell’Erasmus. Riconosco quei posti, ma non hanno più l’aria di prima, sono cambiati. O sono io ad essere cambiata

Sì, ne ebbi la conferma da dentro il mio cuore. Dovevo muovermi, e fu quello che feci. La palla di neve che arrivò dopo il mio ritorno, fu ancora più forte, e più forte è anche la mia determinazione. Perché ora ho abbracciato quel punto di partenza.

Qual è stata la vostra palla di neve in faccia? Che è successo dopo? Scrivete sui commenti!